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Propaganda razziale del consigliere comunale
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 11 dicembre 2012, n. 47894
DIRITTI FONDAMENTALI: Anche un’isolata manifestazione a connotazione razzista può integrare il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ed etnico. Tale principio vale ancor di più per chi ricopre una pubblica funzione.
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 24.9.2009 il Tribunale di Trento aveva assolto G.E. , in ordine al reato di cui agli artt. 3 c. 1 l. 654/1975 e 13 l. 85/2006, in quanto, quale consigliere comunale di Trento, nell'ambito di una seduta consigliare aveva diffuso attraverso il suo intervento idee ritenute fondate sull'odio e sulla discriminazione razziale nei confronti delle comunità rom e sinti sul presupposto che la condotta tenuta dall'imputato ebbe a consistere in denigrazione ed avversione manifestate nei confronti di etnie diverse, integrante il reato di diffamazione, ma non già il più grave reato in contestazione, che presuppone la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale ed etnico. In sostanza, il Tribunale opinava nel senso che nell'intervento del G. erano assenti frasi di superiorità razziale, di razzismo biologico e culturale, posto che il suo intervento era di fatto mirato a sollecitare l'inserimento dei bambini nomadi negli asili nido, il che configurava un atteggiamento che è l'esatto contrario della discriminazione. Veniva quindi escluso che ricorresse una situazione di propaganda di concezioni ideologiche pericolose per l'ordine pubblico, a fronte della quale soltanto lo stato può intervenire per sacrificare la libertà di parola, in difesa dei più alti valori del vivere civile. Veniva esaminato, frase per frase, l'intervento del consigliere da cui si poteva cogliere la doglianza sul fatto che i bambini nomadi non frequentassero le scuole, una lamentela sulla circostanza che l'asilo strutturato nel campo nomadi non fosse stato frequentato dai bambini, laddove invece la mensa risultava frequentata da tutti gli occupanti del campo, con il che venivano criticati l'esborso economico gravante sulla collettività e l'opportunismo di detta comunità. Anche l'infelice frase, secondo cui gli zingari sarebbero dei delinquenti, molti assassini e comunque animati da pigrizia, furore e vanità, veniva ritenuta espressiva di avversione, ma non di superiorità ed odio razziale. La discriminazione punibile, opinava il tribunale sulla scia di un arresto di questa Corte, deve fondarsi sulla qualità del soggetto e non sui suoi comportamenti; inoltre non può qualificarsi come odio qualsiasi sentimento di avversione o antipatia, poiché l'odio razziale sottintende la morte o un grave danno per la persona odiata, che nel caso di specie non era ravvisabile. Le idee manifestate dall'imputato rientravano sicuramente tra quelle discutibili, perché maturate in un contesto di convincimenti oltranzisti, ma non avevano nulla a che fare con idee razziste o con l'istigazione all'odio. Tanto più che lo stesso concludeva ipotizzando la necessità di sottrarre i bambini nomadi ai genitori aguzzini che li utilizzavano nell'accattonaggio, proponendo soluzioni a tutela dei bambini, stimolando l'ente pubblico ad intervenire a difesa di questi, dal che non poteva essere apprezzato alcun tratto di razzismo o discriminazione. Anche la frase evangelica riportata in toni tutt'altro che evangelici (secondo cui chi avesse fatto del male ai bambini avrebbe dovuto legarsi un sasso al collo e gettarsi in mare) non poteva essere considerata al di là di una contumelia e di una gratuita denigrazione. Lo stesso epiteto di "canaglia" configurava, a parere del primo giudice, un esempio di volgarità, di insolenza e di malvezzo, sicuramente integrante il reato di diffamazione, ma non poteva essere letto come incitamento all'odio razziale. Il giudice di prime cure si soffermava anche sulla intervenuta modifica dell'art. 3, rilevando che il testo normativo prima della modifica con l. 85/2006 puniva solo la diffusione delle idee di superiorità razziale, nonché l'incitare alla discriminazione, mentre con la riforma si è previsto di punire chi fa propaganda e chi istiga a commettere atti di discriminazione. Il sostantivo propaganda evocherebbe qualcosa di più ampio del diffondere e soprattutto presupporrebbe organizzazione di mezzi e molteplicità di interventi, il che sta a significare che nel 2006 il legislatore ha deliberato di restringere le maglie del punibile. Veniva quindi definito l'operato dell'imputato quale polemica filippica sulla situazione dei bambini nomadi scevra però da istigazione al male, istigazione che per integrare il reato avrebbe dovuto essere pericolosa per l'ordine pubblico.
Anche in secondo grado, la Corte d'appello di Trento opinava per l'insussistenza del reato, sottolineando come la circostanza che l'intervento del G. contenesse di fatto elementi discriminatori
non bastava ad integrare l'ipotesi delittuosa contestata, dovendo accompagnarsi ad atti di sicura prova del necessario carattere propagandistico dell'attività divulgativa svolta. Si è ribadito che per propaganda deve intendersi la diffusione di messaggi volti ad influenzare idee ed i comportamenti dei destinatari e che l'uso del verbo "propaganda re" al posto di "diffondere" restringe la fattispecie originaria, perché implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi intorno all'idea divulgata poiché propagandare un'Idea significa divulgarla, al punto da condizionare o influenzare il comportamento e la psicologia di un vasto pubblico, in modo da raccogliere adesioni attorno ad essa. Veniva ancora ribadito che il G. aveva parlato nell'ambito di un mandato elettorale, che nulla era dato sapere sulla pubblicità o meno della seduta, sulla ripresa o meno a mezzo video della stessa e quindi sui potenziali destinatari dell'intervento, che nulla fu dimostrato per escludere che l'intervento del G. non sarebbe stato fine a se stesso, ma avrebbe avuto un seguito nella più ampia e generalizzata propaganda politica sull'argomento.
2. Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la corte d'appello di Trento, per dedurre inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché manifesta illogicità della motivazione. Viene contestato che i giudici del merito abbiano ritenuto non provato il carattere propagandistico dell'attività svolta dall'imputato atteso che egli era consigliere comunale, non via era prova che la seduta fosse pubblica e l'intervento non si inseriva in una più ampia attività propagandistica: viene opposto che le sedute del consiglio comunale sono tutte pubbliche e che la non riservatezza dell'adunanza risultava tra l'altro dal verbale e dal resoconto stenografico in atti, per cui l'assunto della Corte territoriale sarebbe affetto da palese illogicità. Il fatto che G. avesse parlato come consigliere non gli riconosceva alcuna immunità, atteso che nell'ambito della discussione sulla disciplina dei servizi socio educativi per la prima infanzia la finalità del G. non era quella di fare escludere i figli dei nomadi dai servizi pubblici bensì quella di togliere d'autorità i bambini di questa etnia dalle loro famiglie, a fronte della loro inferiorità, il che integrava una propaganda di idee dai tratti apertamente razzisti. Infine è stato contestato che il reato debba avere natura abituale, come ritenuto dalla Corte, poiché anche una manifestazione isolata a connotazione razzista può costituire propaganda e quindi integrare gli estremi del reato.
3. È stata depositata memoria dalla difesa dell'imputato con cui viene eccepita la mancata notificazione del ricorso del PG, di cui l'imputato ebbe contezza solo a seguito di notificazione dell'avviso di udienza avanti questa Corte; viene rilevato che era stata data per avvenuta una notificazione, che in realtà mai giunse all'imputato, non risultando recapitata la raccomandata dell'ufficio UNEP accettata da Poste Italiane in data 5.10.2011, ma che per espressa dichiarazione dell'ufficio Postale era risultata rinviata al mittente Unep di Trento, senza che fosse stato tentato il recapito al destinatario, cosicché l'UNEP non si avvide dell'errore e diede per notificato un atto giudiziario che non lo era. La mancata notificazione integrerebbe un vizio incidente sul diritto di difesa.
È stato opposto al ricorso del Procuratore Generale che il G. ebbe ad operare nell'ambito del suo mandato, esprimendo liberamente il suo pensiero in seno al consiglio comunale, luogo destinato appunto a discutere, senza con ciò perseguire alcun intento propagandistico; è stato poi sottolineato che i giudici di merito non avevano affatto voluto riconoscere al reato una natura abituale, ma solo affermare che a quel momento di critica-opposizione politica avrebbe dovuto seguire una più ampia campagna propagandistica per poter vedere configurato il reato in contestazione.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
Va detto preliminarmente, quanto alla doglianza avanzata dall'imputato, che non può rivestire alcuna incidenza sulla legittimità del ricorso del Procuratore Generale presso la corte d'appello di Trento il fatto che non sia stato ritualmente notificato all'imputato, atteso che l'art. 584 cod.proc.pen. prevede la notificazione solo ai fini della proposizione dell'appello incidentale, che èl'impugnazione antagonista rispetto a quella della parte processualmente avversa Sez. III, 10.12.2009, n. 3266, rv 245859), mentre non è prevista la possibilità di proporre ricorso incidentale.
Quanto al merito del ricorso, deve essere sottolineato che la valutazione operata dalla Corte territoriale si distacca nettamente da quella operata dai primi giudici, essendo pervenuti i giudici di seconde cure alla conclusione che era dato rinvenire traccia nel discorso pronunciato dal consigliere comunale G. di "un sentimento di avversione nient'affatto superficiale nei confronti dei soggetti di etnia sinti, determinata proprio dal loro essere zingari e non già da specifiche e concrete condotte...". Si aggiungeva che l'aver manifestato l'idea di fondo, secondo cui unica possibilità di salvezza per i bambini di detta etnia era quella di sottrarli alle famiglie di origine, per spezzare questa catena generazionale che avrebbe dato continuità alla loro "sedicente cultura" ed alle loro "discutibili tradizioni tradiva l'evidente pregiudizio razziale del G. nei confronti di un'intera etnia, generalmente considerata, giudicata di un'inferiorità culturale tale da poter essere affrontato e definitivamente risolto il problema della loro presenza sul territorio solo con un taglio alle radici e dunque con l'allontanamento dei bambini dalle loro famiglie, operando un vero e proprio "sequestro di stato" (tali le parole del G. ). La Corte ha correttamente riconosciuto, a differenza di quanto opinato dai primi giudici, con adeguata aderenza ai dati di fatto (rappresentati in modo più che obiettivo dal testo dell'infelice intervento dell'imputato) il tratto discriminatorio nell'operato del prevenuto, che fece sempre e solo riferimento a condotte criminose degli zingari (definiti canaglie, assassini, pigri, vanitosi, aguzzini) senza riferimento a casi specifici ma esprimendosi in via generale, così delineandosi in modo netto il pregiudizio secondo cui tutti gli zingari sarebbero dediti ad attività criminose e diffondendo l'idea della netta inferiorità della loro etnia.
La realtà così ricostruita deve essere quindi data per accertata, così come deve essere data per appurata la volontà discriminatoria che avrebbe animato il G. , a dispetto di quella meramente diffamatoria, ritenuta dal Tribunale invero con un notevole sforzo interpretativo delle parole pronunciate dal medesimo.
Ciò posto, la sentenza impugnata va censurata, come correttamente denunciato dal PG ricorrente, là dove ha ritenuto di non ravvisare in detto intervento il carattere propagandistico dell'attività divulgativa svolta.
Partendo da una pronuncia di questa Corte (Sez. III, 12234/2008) i giudici di secondo grado hanno ritenuto che propagandare un'idea significhi divulgarla per condizionare od influenzare il comportamento di un vasto pubblico ed hanno concluso che il G. avesse operato nell'ambito del suo mandato, che avesse operato in una sede che non necessariamente era aperta al pubblico, che non necessariamente la seduta venne ripresa o trasmessa con mezzi televisivi di ampia diffusione e che non era provato che tale intervento si ponesse come un tassello di una più ampia attività divulgativa.
I rilievi censori del ricorrente su tali conclusioni sono condivisibili. In primis va detto che l'intervento del G. avvenne nell'ambito del consiglio comunale che, come è noto a tutti, è di norma assemblea pubblica, con ampia partecipazione dei cittadini amministrati; i lavori del consiglio comunale, proprio perché trattano aspetti della vita e delle esigenze della comunità, sono per lo più oggetto di diffusione ad opera dei mezzi informativi, ma anche in caso contrario nulla verrebbe meno per l'integrazione dell'ipotesi delittuosa attesa l'apertura al pubblico dei lavori del consiglio comunale. Sul punto la sentenza manifesta la mancata aderenza alla realtà di fatto e rileva una manifesta caduta di logicità. Parimenti deficitario va considerato il secondo passaggio argomentativo, basato su una libertà di espressione che sarebbe legata al ruolo rivestito dal G. , laddove come è noto la funzione di consigliere comunale non legittima sicuramente (in esplicazione del mandato elettorale) di esprimersi con frasi di generalizzazione, afferente alla "etnia", offensive non solo della dignità delle persone, ma additive di inferiorità legate alla cultura e tradizioni di un popolo, tanto da auspicare il sequestro di stato, mezzo con cui operare la sottrazione alle famiglie dei bambini, indicato come unico strumento attraverso il quale si sarebbe potuto rompere "la catena generazionale". Come rilevato dal PG ricorrente, il ruolo rivestito dal G. non consentiva affatto alla sua foga oratoria di spingersi così in avanti, comunque oltre i confini del lecito, ma al più avrebbe dovuto imporgli una maggiore prudenza, proprio nell'esercizio di quella pubblica funzione, da cui discende l'aggravante di cui all'art. 61 n. 9 cod.pen. che gli venne contestata. Infine non è corretto il discorso giustificativo della sentenza impugnata, laddove è stato ritenuto che l'intervento del G. fosse un'isolata manifestazione di pensiero non produttiva di "propaganda", atteso che il reato previsto dall'art. 3 lett. a) l. 654/1975 non esclude affatto dall'alveo precettivo anche un'isolata manifestazione a connotazione razzista; l'elemento che caratterizza la fattispecie è la propaganda discriminatoria, intesa come diffusione (sul punto è stata affermata la sostanziale equiparazione dei due termini propaganda/diffusione v, Sez. III 7.5.2008, n. 37581) di un'idea di avversione tutt'altro che superficiale, non già indirizzata verso un gruppo di zingari (magari quelli dediti ai furti), ma verso tutti gli zingari indicati come assassini, ladri, pigri, canaglie, aguzzini e via dicendo, quindi verso il loro modo di essere, verso la loro etnia evocata espressamente, avversione apertamente argomentata sulla ritenuta diversità ed inferiorità. Tanto da aver suggerito il G. , non in un eccesso di foga oratoria ma con ferma convinzione, il sequestro di stato, con evidente finalità di raccogliere adesioni attorno alla sua idea, atteso il pulpito da cui la discutibile proposta veniva avanzata.
La vantazione operata dalla Corte non è dunque In linea con il parametro normativo di riferimento e con l'interpretazione che dello stesso è stata data dalla giurisprudenza. Giova in proposito ricordare che questa stessa Corte di legittimità, con sentenza Sez. IV,10.7.2009, n. 41819, pose fine alla vicenda processuale che era seguita alla sentenza di annullamento con rinvio della sez. III, con l'arresto più volte richiamato dai giudici di merito (n. 13234) incentrato sul fatto di intervenuta collocazione in Verona di manifestini su cui era scritto "via gli zingari da casa nostra": la frase è stata ritenuta dal significato ampiamente discriminatorio, non essendo mai stato fatto riferimento a soggetti ben individuati, ma sempre in via generale agli zingari, così potendosi apprezzare il carattere del pregiudizio secondo cui tutti gli zingari sono dediti ad attività criminogene.
La sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Brescia in conformità alla linea interpretativa soprarichiamata.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Brescia.